Sicilia l'Isola da amare
anche attraverso il recupero della memoria storica delle nostre radici

* “SANTA ROSALIA E IL MONTE PELLEGRINO” di Bianca Maria Acquaviva

Lions Club Palermo Monte Pellegrino Presidente: Bianca Maria Acquaviva

Alla radice del profondo legame tra Palermo e la sua montagna, c’è Santa Rosalia, “la Rosa dell’Ercta”: la Rosa è la “Santuzza”, un fiore celeste che nella memoria, nella fede e nell’amore dei Palermitani non appassirà mai, l’Ercta è il ripido Monte Pellegrino, vera e propria “montagna sacra”.(G. Catanzaro e Z. Navarra)


Il Club Lions al quale con orgoglio appartengo, si chiama “Monte Pellegrino”; ed è proprio al rapporto tra questo monte e Santa Rosalia che è dedicato il presente contributo: esso è inteso come cammino nella memoria, fin là dove si incontrano le radici nella penombra del tempo nascente, ma anche come ricerca aperta verso il futuro. Il ritorno alle radici ci consente così di recuperare il nostro pensiero come i nostri sentimenti.

La “Rosa dell’Ercta”, dunque: la rosa è Rosalia, l’Ercta è il ripido Monte Pellegrino, nei cui anfratti la Santa trovò rude accoglienza per la sua vita di solitudine nella preghiera e nella penitenza.

È chiaro ed incontrovertibile che Rosalia sia nata a Palermo. Non si ha certezza sulla sua data di nascita, ma approssimativamente se ne può dedurre l’anno, ove si consideri che appare certa la data di morte, che sarebbe avvenuta intorno al 1160 e che la sua vita, secondo le perizie eseguite dopo il ritrovamento delle sue ossa, ha avuto una durata di 30-40 anni. Può, pertanto, indicarsi una data di nascita intorno all’anno 1130.

Siamo, quindi, nel XII secolo, in pieno dominio normanno. Tra storia e leggenda sembra che Rosalia, figlia del Duca Sinibaldo, signore di Quisquina e delle Rose, località queste ubicate tra Bivona e Prizzi, discendente di Carlo Magno dalla parte materna, fu damigella di corte alla reggia del re normanno Ruggero II.

Rosalia Sinibaldi nasce quindi nel 1130 in una ricchissima e nobile famiglia palermitana di origini normanne e, ancor giovane, muore nel 1166 nella grotta ove oggi si erge il santuario e ove, probabilmente, furono trovati i suoi resti. Rosalia si era ritirata sul Monte Pellegrino per condurre una vita da eremita; da allora nessuno mai seppe della fine di questa nobile fanciulla.

Solo dopo alcuni secoli, nel 1624, mentre a Palermo infieriva la peste che decimava il popolo, lo spirito di Rosalia apparve in sogno prima ad una malata di peste, poi ad un cacciatore. A quest’ultimo Rosalia indicò la strada per ritrovare i suoi resti ossei, e chiese di portarli in processione per la città. Così fu fatto: ove passavano i resti della Santa i malati guarivano e si univano alla processione, liberando totalmente la città in pochi giorni dall’orribile morbo. Da allora la processione si ripete ogni anno con il fine di proseguire nei secoli il rituale di liberazione dai mali che affliggono l’umanità.

Un’appassionata lettura delle “coordinate storiche” per recuperare una tradizione secolare per Palermo che, anche negli anni precedenti la peste, aveva già invocato Santa Rosalia come “celeste avvocata”, chiarifica il rinnovo di grande amore per quella santa, una fede mai scomparsa, ma “rinverdita” in un momento particolare per il popolo e la Sicilia, nel momento in cui il “santorale cittadino” aveva indicato in Agata, Ninfa, Cristina ed Oliva le patrone in assoluto della città di Palermo.

La città che sino a quel tempo aveva importato le reliquie dei Santi che l’ avrebbero difesa, diviene ora esportatrice delle gloriose reliquie della vergine eremita in tutta l’Europa ed oltre oceano. Santa Rosalia viene dichiarata patrona di Palermo ed inserita nel Martiriologio romano dal papa Urbano VIII Barberini, che essendo filofrancese aveva inserito nelle origini della santa una sua ascendenza carolingia che la imparentava a Carlo Magno.

Santa Rosalia diviene dunque la nuova “Regina” di Palermo e sul Càssaro il Carro trionfale esprime una ritrovata unità ed un desiderio di rivincita per la città e il popolo, che la identifica in una idea di libertà e di purificazione dai mali secolari che la attanagliano. Una nuova Dea da contrapporre al vecchio “Genio di Palermo”.

Nel riferimento alla Santa si trovano sempre motivi di fiducia e di speranza per un futuro migliore e questo inestinguibile messaggio deve valere anche per il nostro oggi, per dare forza e coraggio a quanti continuano a guardare verso quel Monte Pellegrino dal quale Rosalia mirava la sua Palermo e per essa, pregando, intercedeva.

Due monti fanno parte della vita anacoretica di Rosalia Sinibaldi: l’Ercta, l’attuale Pellegrino, e i più tenebrosi e meno solari monti della Quisquina e delle Rose, di cui il padre, duca Sinibaldo, era signore. Possono essere considerati come le metafore di una esistenza leggendaria, ma non per questo meno tangibile. Forse è proprio la vera consistenza biologica che rende oggi questa floreale e mistica fanciulla, desiderata, eletta e prontamente amata con quel trasporto aperto e incondizionato caratteristico dell’affetto popolare, più tenacemente ancorata alle vicende storiche e umane di una Palermo sempre più travagliata e inquieta.

Il Monte Pellegrino è un promontorio in forma di vera e propria montagna calcarea, alta 609 metri s.l.m., che chiude a Nord il Golfo di Palermo e a Sud il Golfo di Mondello.

Il massiccio montuoso del Monte Pellegrino, che si protende sul mare Tirreno, ha i ripidi fianchi segnati da grotte e fratture millenarie. I viaggiatori del passato, primo fra tutti Goethe, lo definirono “il promontorio più bello del mondo”, anche perché vi riscontrarono quei magici contrasti, maestosità e dolcezza, che erano tanto amati nel Settecento e nell’età del Romanticismo.

Una delle tanti lapidi ricorda la visita fatta al santuario da Goethe nel 1787. Scrive a riguardo lo scrittore tedesco: «Giunti alla vetta del monte, dove questo forma come una nicchia nella roccia, ci troviamo di fronte ad una parete a picco alla quale la chiesa ed il convento sembrano appesi. L’esterno della chiesa non ha nulla di attraente; si apre la porta con indifferenza, ma già all’entrata si rimane colpiti dalla più grande meraviglia..Attraverso le aperture di un gran cancello di ottone a fogliami vidi sotto l’altare luccicar delle lampade; m’inginocchiai proprio accosto e guardai per gli spiragli. Dentro c’era ancora una graticola fatta di fili di ottone intrecciati fra di loro, in modo che l’oggetto quivi racchiuso appariva come attraverso ad un velo. Al chiarore di alcune quiete lampade mi apparve una bellissima fanciulla. Giaceva come rapita in una specie di estasi. Col capo mollemente reclinato nella mano destra adorna di numerosi anelli. Non potevo saziarmi di contemplare quella figura da cui mi pareva emanasse un fascino del tutto singolare. La veste fatta di lamina dorata, simulava alla perfezione un ricco broccato d’oro. La testa e le mani di marmo bianco erano non dirò di uno stile eccellente, ma pure lavorate cosi al naturale e con tal garbo da credere che ella dovesse respirare e fosse lì lì per muoversi. Le stava accanto un angioletto che sembrava ventilarla con uno stelo di giglio. Frattanto i Sacerdoti erano entrati nello speco, s’eran seduti nei loro stalli e cantavano i vespri. Io mi sedetti su di una panca e mi posi alcun tempo ad ascoltarli; quindi mi recai di nuovo all’altare, m’inginocchiai un’altra volta e cercai di scrutare ancora meglio la dolce immagine della Santa. Totalmente mi abbandonai all’affascinante visione della figura e del luogo. Il canto dei Sacerdoti svaniva ormai sotto le volte della Grotta, l’acqua scolava raccolta nel bacino accanto all’altare e le rupi sporgenti dell’atrio, e altresì quelle della navata, chiudevano ancor meglio la scena. Un gran silenzio regnava in questo luogo deserto che ora pareva restituito alla morte, una gran lindura era in questa grotta selvaggia. L’esterno splendore del culto cattolico, e specialmente siciliano, appariva qui in tutta la sua naturale ingenuità. L’illusione che produceva la figura della bella addormentata era piena d’incanto, anche per un occhio esercitato; insomma, io non potei staccarmi che a fatica da questo luogo e ritornai a Palermo solo ed a notte inoltrata».

Il santuario di Santa Rosalia, posto a 430 metri s.l.m., fu eretto nel 1625 su di una massiccia scalinata. È composto da una parte dedicata a chiesa ed una a convento. La facciata del seicento è addossata alla roccia. A sinistra, all’interno di un’edicola, è posta una statua marmorea di Santa Rosalia del XVIII sec. Si entra in un vestibolo a tre arcate su colonne tortili di alabastro, ove sono due altari a tarsie marmoree, con una statua di S. Atanasio: a destra è un Crocifisso ligneo del ’400, a sinistra oltre al confessionale, varie lapidi di cui una ricorda la visita di Goethe nel 1787. Più avanti uno spazio, illuminato dalla volta scoperta della grotta, ospita una notevole quantità di ex voto ed una statua della Santa. La chiesa è stata ricavata dalla grotta, profonda circa 25 metri e larga non più di 10, ove con molta probabilità furono ritrovate le reliquie della “Santuzza” come viene familiarmente chiamata Santa Rosalia dai Palermitani. Alla grotta consacrata si accede da un cancello in ferro. Entrando nella grotta, subito dopo aver varcato il cancello, si ha una strana sensazione: un misto tra stupore e meraviglia.

In fondo alla grotta, illuminato da faretti direttivi, vi è l’altare, semplice ed essenziale, alle cui spalle, incastonata nella roccia viva, si erge una statua marmorea dell’Immacolata del ’700. Alzando gli occhi davanti a sè, si intravede la volta della grotta coperta da lamine metalliche che incanalano l’acqua santa che trasuda dalle fenditure della roccia. Essa viene raccolta ed utilizzata per le acquasantiere all’ingresso della chiesa. Sempre guardando verso l’altare ma in alto a sinistra, incastonata in una fenditura della roccia, si scorge, anch’essa illuminata da un faretto, la testa marmorea della Santa: la scena è di una suggestione notevole e esprime lo stato di solitudine ed eremitaggio in cui la santa, per sua scelta, visse. A dieci metri dall’ingresso a sinistra sotto un baldacchino vi è l’altare con il simulacro della “Santa Rosalia giacente” inserita in una teca in vetro immersa negli ex-voto dei devoti: una bella statua di Gregorio Tedeschi del 1625, successivamente coperta da una lamina d’oro donata dal re Carlo III. Il bassorilievo visibile è di Nunzio La Mattina, ivi collocato nel 1636.

Discorrendo sulla Santa Rosalia, potremmo cogliere una chiave di lettura poetica e antitradizionalista. Una evocazione della “montagna sacra” che per Palermo crea i presupposti di un centro sacrale di ascendenza greca, quasi un santuario delfico.

Una Palermo in due dimensioni, la città e il monte. I due livelli della percezione, umana e trascendente. La montagna come “Acropoli”, come rocca a cui appendere le miserie degli uomini, peste che sia o mali secolari. Una suggestiva bellezza anima la città che crede nuovamente nel riscatto della propria identità.

Lontana dagli splendori della corte normanna e da Federico II ultimo monarca, Palermo ricrea la sua “Regina” per credere in una forza interiore che rianimi la sua storia, non legata alla sequela dei vari e anonimi viceré che l’avevano governata. Al di là dei tradizionalismi, il “festino” fa riecheggiare le suggestioni che a Messina avevano salutato con l’evento di Carlo V Imperatore la “pompa” che aveva lasciato posto alla “vara dell’Assunta”. Memore di tutto questo Palermo conquista con il Carro trionfale, una esperienza quasi irripetibile nell’Europa di quel tempo.

Palermo rivive nell’immaginario collettivo un primato che la imporrà all’attenzione anche dei viaggiatori dal XVII al XVIII sec. E tutto non può prescindere dall’evocare il passaggio di W. Goethe, che proprio davanti alla bella immagine della santa Rosalia scrive una pagina “unica e delicata”. Immagine dalla quale, come dichiara il poeta “non potei staccarmi che a sera inoltrata”.

Una Palermo del male, ma soprattutto una Palermo del bene e del riscatto. Qualcosa in cui “credere” in un mondo denso di ipocrisia. Santa Rosalia come prototipo di una società più credibile e autentica. La utopica “città felicissima” una Palermo della “gioia” contrapposta a quella del dolore e della morte.

Il più recente quadro della Vergine Rosalia, del pittore Mario Bardi, che si ammira a Roma, mostra la Santa, bella nell’alta figura statuaria stagliata sul Monte, con ai piedi la città di Palermo, cui è rivolta la sua mano benedicente.

È la Rosa fiorita sull’Ercta: un fiore celeste che nella memoria, nella fede, nell’amore dei palermitani non appassirà mai. Santa Rosalia preferì vivere nella solitudine di Monte Pellegrino, in una grotta dove morì e venne sepolta. Fu l’esponente della santità e dell’eremitismo in tempo normanno. Nel corso dei secoli il Monte Pellegrino è stato sempre luogo di culto sia per i pagani che per i cristiani e sino ai nostri giorni abitazione dei pastori. Il suo nome richiama S. Pellegrino martire durante la persecuzione di Valeriano, venerato a Caltabellotta. Un’ iscrizione cristiana in greco del secolo VII “Sii dunque glorificato, o Dio”, si può ancora leggere sulla scala rupestre, della valle del Porco, che era la via più breve per giungere all’attuale Santuario.

Ogni festa in onore del Santo Patrono ha una sua storia, una sua leggenda e una sua rappresentazione sacra.

Si pensa che l’atto di nascita del “Festino”, cioè della festa celebrativa che diverrà tradizione e che già si attesta come il festeggiamento che ha luogo ogni anno a Palermo, per la durata di 5 giorni, in onore della concittadina protettrice Santa Rosalia, coincida con la prima processione che il 15 luglio del 1624 liberò la città dalla peste scoppiata in quel periodo. È attestato infatti che nel 1649, per volere degli alti reggenti, ebbe luogo una seconda processione, temendo nuovamente un sospetto di peste.

Attrattiva principale del Festino è il carro che, allestito alla Cala, di norma il pomeriggio dell’11 Luglio, si fa salire dal Càssaro (Corso Vittorio Emanuele) fino al Piano del Palazzo (Palazzo Reale); quindi in un tempo successivo ridiscendere fino al mare. Quasi sempre a forma di scafo, esso si propone come una costruzione architettonica con pitture e statue, ornata di fogliami, di ghirigori, argentature, dorature; con tutt’intorno scene della vita della Santa e raffigurazioni degli Angeli e delle virtù; e, in cima, la figura di Rosalia, dalle vesti candide, dal capo coronato di rose, dal volto raggiante di bellezza. I carri trionfali venivano progettati ogni anno con una tematica decorativa con scene attinenti o alla vita della Santa oppure ai fatti più drammatici vissuti dalla Città. Su tutti questi drammatici accadimenti la Santuzza trionfava.

Il Seicento è per i palermitani il secolo nel quale, prescelta una Santa protettrice potente come Rosalia, si può finalmente colmare il distacco con Messina. La città dello Stretto, antagonista storica di Palermo, era protetta infatti dalla “Madonna della Lettera” ed era sede di una grande celebrazione festiva, in occasione della Madonna di Mezz’agosto, durante la quale venivano esposte delle macchine risalenti al Cinquecento e celebri in tutto il mondo.

Se i Messinesi erano protetti dalla Madonna e possedevano la vara dell’Assunta, Palermo, finalmente, con S. Rosalia ed il suo Carro Trionfale, non sarebbe stata da meno. In pratica i palermitani trasferirono il culto per la Madonna Odigitria di Costantinopoli, protettrice della Sicilia, in quello per S. Rosalia alla quale vengono conferiti quegli attributi di regalità che spettavano, invece, alla Madre di Dio. A questo associarono, sentimentalmente, la secolare richiesta della riconferma per Palermo di capitale del Regno di Sicilia.

Queste rivendicazioni intrecciate fra loro, produssero quella particolare concezione fastosa delle sceneggiature che si riflette nella decorazione delle carrozzerie dei vari Carri Trionfali realizzati a partire dalle fine del secolo.

Infatti questo veicolo assumeva a Palermo anche il ruolo di Carro Trionfale celebrativo per i Re lontani fino a divenire, viste le supposte ipotetiche discendenze regali attribuite alla Santuzza, un veicolo regale per eccellenza. I Palermitani vi sfogarono tutta la loro malinconia per l’assenza, dalla loro città, di un vero Re in carne ed ossa e ne vollero, quindi, almeno un simulacro da portare ogni anno in trionfo sopra il mastodontico carro attraverso la figura di Rosalia, sempre nominata come Regina di Palermo.

La tradizione di fare girare il carro trionfale per le vie della città di Palermo in onore di Santa Rosalia, nel mese di luglio a perenne ricordo del miracolo avvenuto in occasione della peste del 1624, non sempre si è potuta rispettare per varie vicissitudini quali ad esempio: nel 1837 a causa di una epidemia di colera; nel 1848-’49 in conseguenza della rivoluzione antiborbonica; nel 1858 per i lavori di ripavimentazione che interessarono il Càssaro. Rimane memorabile il festino dell’anno 1924, anniversario del terzo centenario del ritrovamento delle reliquie, dopo di che vi furono alcuni decenni di interruzione. Dal 1974 la tradizione è stata ripresa e non ha subito interruzioni fino ai giorni nostri, grazie ad una maggiore e sempre crescente disponibilità dell’Amministrazione Comunale che ne ha nel tempo aumentato la spettacolarità.

Se Palermo e i Palermitani si votano alla Santuzza in forma palese e in modi esterni, essi, però, restano parte integrante della richiesta devozionale, in quanto è l’apparato festivo ex voto ad avere il preciso valore di una offerta alla Santa per agevolarne e sollecitarne l’influenza.

A dire il vero il fantasmagorico succedersi delle celebrazioni programmate e vissute nel centro storico, l’intrinseca necessità di mostrarsi e di apparire, quasi di godere con gli occhi, in un tripudio dei sensi, tra colori e sapori, in una dimensione di festosità estrema, ha fatto indicare il Festino principalmente come momento profano, privo di un reale sostrato religioso, tanto più che la Santuzza ha un tempo sacro che sembra far da contrasto al festino stesso: cioè il 4 settembre, solennità del suo dies natalis, festività liturgica con istanze celebrative di tipo essenzialmente ecclesiastico.

Va detto, però, che il rituale religioso del 4 settembre pur rimanendo all’agiografia della Santa, sembra, di fatto, in maniera più significativa, esplicitare il contatto diretto con il sacro: nella notte tra il 3 e il 4 settembre ha inizio il tradizionale viaggio, cioè il pellegrinaggio al Santuario. Un rituale severo vuole che si scali a piedi il Monte Pellegrino, che si dorma all’addiaccio sul sagrato e che si offrano alla Santa ceri ed ex voto per grazie ricevute.

Ancora oggi il Festino si presenta come la celebrazione o, se si vuole, la rappresentazione plastica collettiva delle due dimensioni dialettiche immanenti alla coscienza: tempo – eternità, profano – sacro, impegno – salvezza, progresso – liberazione, lavoro – preghiera, necessità – grazia. È per questo che commetterebbe un errore concettuale (oltre che una offesa alla testimonianza sincera della gente) chi volesse isolare una di queste due dimensioni che segnano la coscienza storica del popolo palermitano. Dire che “l’acchianata” a Monte Pellegrino ha una valenza religiosa e sacrale superiore e che è un’alternativa a tutte le altre forme del Festino, significa non capire nulla di ciò che sta alla sorgente di un’esperienza di vita complessa ed organica, significa volere introdurre divisioni superficiali là dove c’è, invece, una identità profonda. Quella coppia di anziani, che si siede sul palchetto musicale, al Foro Italico, per mangiare il 15 luglio le chiocciole (babbaluci) e berci sopra un bicchiere di vino, celebra il festino con lo stesso spirito di chi dorme la sera del 3 settembre sul Monte Pellegrino sotto le stelle, vicino alla grotta di Santa Rosalia. Nell’uno e nell’altro caso la gente testimonia la convinzione che ogni gesto dell’uomo ha un radicamento ultimo nel sacro e solo in rapporto ad esso può avere, ed ha, un senso ed un valore.

Finisco citando canti tradizionali:

“Ogni passu ed ogni Via,

Viva Santa Rusulia”.


“Virginedda gluriusa e pia,

Viva la nostra Santa Prutittrici Rusulia”.


“E chi semu muti? …

Viva … Viva Santa Rusulia”.